Quando la commedia andò in scena, l'8 gennaio 1965 al Teatro San Ferdinando di Napoli, alcuni
critici tirarono in ballo Pirandello e il suo "teatro nel teatro". Ma Eduardo raccontò di essersi
ispirato a un atto unico di un autore napoletano dell'Ottocento, Giacomo Marulli, intitolato I comici
e l'avvocato. In questo atto unico un impresario si rivolge a un amico avvocato, autore teatrale per
diletto, per chiedergli di scrivere una commedia per la sua compagnia; e gli propone di mandargli
subito gli attori perché possa, dal colloquio con loro, ricavare qualche spunto. Ma l'avvocato non ha
tempo di riceverli: deve andare a discutere una causa importante. Il capocomico però insiste e
finisce addirittura per scommettere che egli incontrerà i suoi attori prima di recarsi in tribunale;
premio della scommessa sarà proprio l'impegno dell'avvocato a scrivere il lavoro. Il capocomico se
ne va e nello studio cominciano ad affacciarsi, insistendo per essere ricevuti, diversi personaggi:
una giovane innamorata, un soldato, una vivandiera, un poeta, i quali irretiscono l'avvocato in un
mare di questioni bislacche impedendogli di andarsene. Naturalmente l'ultimo a fare il suo ingresso
nello studio è proprio il capocomico, che viene a esigere il premio della scommessa.
Nell'atto unico di Marulli si prevede che il dubbio sulla identità dei personaggi venuti a chiedere udienza all'avvocato alla fine si chiarisca: quelli che lui ha ricevuto sono attori che si sono fatti
passare per clienti e non clienti veri. Il gioco è per altro così ingenuo che l'agnizione finale è più
una conferma che una sorpresa.
Nell L'Arte della Commedia invece Eduardo non risolve l'enigma e lascia non solo il prefetto e il suo segretario ma anche il pubblico nel dubbio se coloro che si sono
avvicendati davanti all'autorità per esporre le loro singolari storie di vita siano davvero un medico,
un prete, una maestra, un farmacista, o siano solo degli attori che si fingono tali. Se dal punto di
vista del prefetto è molto importante che l'enigma si risolva (soprattutto quando ha il dubbio di trovarsi di fronte a un suicidio), per il capocomico Campese non è poi così importante appurare se si tratti di realtà o di finzione, dal momento che: "Quando in un dramma teatrale c'è uno che muore
per finzione scenica, [...] un morto vero in qualche parte del mondo o c'è già stato o ci sarà".
Scegliendo un finale aperto, che non spiega e non risolve ma lascia in campo tutte le possibili
varianti del gioco teatrale, Eduardo invita gli spettatori a considerare il rapporto fra realtà e finzione
da una duplice prospettiva: non solo quella di un teatro che guarda alla società e che — come dice
Campese — mette "l'occhio al buco della serratura" per riportare sulla scena storie di vita, pezzi di
realtà; ma anche quella di una società civile che guarda al teatro considerandolo non un passatempo
futile, una realtà marginale, ma uno specchio in cui riflettersi per conoscersi meglio. Per dirla con
Campese, più ancora che i fatti, "sono le circostanze che contano"; quelle stesse circostanze che poi
producono i singoli fatti concreti. Ed è delle circostanze, non dei fatti, che il teatro deve occuparsi.
Come si vede, a questo punto del suo lavoro Eduardo si è già molto allontanato dalla farsa
napoletana da cui ha preso spunto. Le problematiche che tratta sono assai più complesse, anche se il
gioco teatrale, nel suo meccanismo, non cambia granché. Allo stesso modo, fin dal primo tempo
della commedia, Eduardo autore prende le distanze anche dalle problematiche pirandelliane del
"teatro nel teatro", da quello che Campese chiama "il problema dell'essere e del parere"; e lo fa per
bocca del suo personaggio.
Al Prefetto che sprezzantemente, di fronte alla sua minaccia di mandargli gli attori travestiti, lo ha
sfidato dicendogli: "Li mandi pure questi "Personaggi in cerca di autore", troveranno buona
accoglienza...", Campese replica: "Se mi deciderò a mandare i miei attori qua sopra, lo farò allo
scopo di stabilire se il teatro svolge una funzione utile al proprio paese o no. Non saranno
personaggi in cerca di autore, ma attori in cerca di autorità".
Non c'è dubbio che, anche se hanno avuto fortuna e destini assai differenti, nella loro "ricerca delle
autorità" Eduardo e il suo protagonista si identifichino. Per entrambi del resto questa ricerca non ha
dato grandi frutti. In molte interviste e dichiarazioni pubbliche Eduardo espresse il proprio
rammarico di fronte alla sordità del potere politico nei confronti del teatro: dei suoi messaggi come
dei suoi problemi.
Quando Campese ricorda al Prefetto che nel 1946 nel piano di aiuti economici
per la ricostruzione del paese non furono inclusi gli edifici teatrali, dietro le parole del personaggio
si possono intravedere le esperienze del suo autore, al quale furono rifiutati finanziamenti e prestiti
agevolati per la riedificazione del San Ferdinando, il teatro che aveva acquistato in macerie nel
dopoguerra e che dovette ricostruire completamente a sue spese. E quando Campese si domanda se
il teatro sia di pubblica utilità o no, di interesse nazionale o no, e prosegue poi mettendo
maliziosamente in questione la legittimità di "tutto l'apparato burocratico che lo circonda", nelle
sue parole pare di sentire l'eco delle dichiarazioni polemiche di Eduardo, alla fine degli anni
Cinquanta, contro la Direzione Generale del Teatro, accusata di essere un organismo burocratizzato,
gestito in modo clientelare e parassitario.
In un certo senso si può dire che nel L'Arte della
Commedia usando le proprie risorse di autore e di attore, Eduardo abbia cercato di mettere in scena
quel dialogo con le autorità che tante volte gli è mancato nella sua esperienza concreta di teatrante.
Indossando i panni di un piccolo capocomico di provincia e riducendo le stesse autorità al ruolo di
personaggio, le ha costrette ad ascoltarlo. Ma ancora una volta si tratta di un dialogo fra sordi.
Teatro e potere parlano due linguaggi profondamente diversi. E sugli esiti di questo confronto
Eduardo autore non esita a esprimere il proprio pessimismo. Drammaturgicamente però la sordità
del Prefetto e le divergenze di opinione fra lui e Campese producono effetti interessanti e fanno sì
che il lungo dialogo a due voci che costituisce l'intero primo tempo della commedia, ben lungi
dall'apparire statico, poco teatrale, povero di azione — come apparve ad alcuni critici — si presenti
invece come una vera e propria battaglia, una battaglia di idee in cui ciascuno combatte nel modo
che gli è proprio: il Prefetto con l'arrogante alterigia che spesso si associa al potere, il capocomico
con una mitezza e un'acquiescenza apparenti che nascondono in realtà la difesa caparbia delle
proprie idee.
All'inizio i due personaggi a confronto, pur profondamente diversi per professione,
condizioni, classe, sembrano essere accomunati proprio dal comune interesse per il teatro. Campese
è un attore e anche il Prefetto, in gioventù, ha fatto l'attore, ha recitato in compagnie
filodrammatiche, ottenendo anche qualche successo in ruoli di primo piano. E' forse è proprio la
speranza di rinverdire il ricordo di quelle lontane esperienze giovanili a convincerlo a dare udienza
al piccolo attore venuto a conferire con lui. Man mano che il dialogo procede però ci si accorge che
Campese e il Prefetto considerano il teatro in due modi molto diversi, addirittura opposti: per il
primo esso rappresenta, allo stesso tempo, un mezzo di sopravvivenza e una missione (per lui le due
cose non sono affatto in contraddizione come per tanta cultura del Novecento); per il secondo
invece è un passatempo un po' frivolo, tutt'al più un "fatto di cultura", nel complesso un fenomeno
accessorio di cui si può benissimo fare a meno.
E il confronto si fa ben presto scontro. D'altra parte,
che esistano non il teatro ma teatri diversi per pubblici diversi risulta chiaro nel momento in cui
Campese spiega al Prefetto il motivo che lo ha spinto a chiedergli aiuto. Lui e i suoi attori non
hanno mai avuto bisogno dell'intervento dell'autorità; sono sempre stati autonomi grazie al rapporto di fiducia con un pubblico popolare, composto di "braccianti, contadini, serve, bottegai", che
frequentava abitualmente il loro teatro itinerante, "Il Capannone", prima che andasse distrutto in un
incendio. Il precedente Prefetto ha concesso loro il teatro comunale, così che possano almeno
mettere insieme i soldi per il viaggio, ma il loro pubblico "si vergogna di entrare nei teatri dei
signori"; né, d'altra parte, ci entrano i signori, poco o nulla interessati agli spettacoli della sua
compagnia, alla modestia degli allestimenti, a quel repertorio fatto prevalentemente di classici o di
drammi popolari che il prefetto definisce sprezzantemente "la solita zuppa". Quel che determina la
crisi del teatro — dice quest'ultimo — è la mancanza di autori.
Il problema per lui è artistico e culturale. Quel che determina la crisi del teatro — ribatte
Campese, che non è d'accordo neppure sull'uso di questo termine vecchio quanto il teatro — è la confusione
che ne intralcia l'organizzazione, sono il clientelismo e il ricatto che tarpano la libertà degli autori e
ne isteriliscono la fantasia imponendo una autocensura che rende la censura stessa uno strumento
inutile; è il rapporto con un potere che, non solo non si accontenta di considerare il teatro come un
fatto superfluo, ma se ne serve come merce di scambio. Il problema per lui non è dunque solo
artistico e culturale, ma sociale e politico.
Come si vede le questioni che Eduardo solleva con questa commedia, dando voce al capocomico
Campese, non un intellettuale ma un piccolo teatrante di poca cultura e di molta esperienza,
mantengono anche oggi la loro schiacciante attualità e la manterranno fintanto che esisteranno, da
un lato, un potere arrogante e votato solo al mantenimento di se stesso, dall'altro un teatro che
guarda alla realtà per aiutare a comprendere, se non a risolvere, le sue troppe contraddizioni.
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